Countdown
Quanti ricordi ci evoca quel campetto. Davvero in pochi di quelli della nostra generazione che masticano il "calcetto on the road" possono dire di non aver mai calcato il glorioso asfalto del Cristo Re. Quante compagnie abbiamo visto passare in questi anni. Il bello del Cristo Re era che c'era sempre gente diversa. A parte noi, s'intende. Ogni tanto c'era una compagnia, mai vista prima, che si insediava in quel campetto. Giocavano, se ne andavano e poi tornavano puntualmente il giorno dopo. Manco fosse la transumanza. Ma tornavano. Questo per periodi variabili: giorni, settimane o anche mesi. Poi però svanivano nel nulla, senza dare più notizie. Come erano arrivati, allo stesso modo se ne andavano. Tutti però sapevano che il sabato era il giorno sacro. Guai a profanare quel campetto proprio in quella giornata. C'erano il Bomber, Chef, Ciccia, Fuente e tutta la combriccola che dovevano giocare. Il sabato era il loro giorno. Neppure la buffa trovata di qualcuno (l'invenzione della prenotazione... manco fosse un campo a pagamento) era riuscita a cavare un ragno dal buco. Neve, grandine o solleone, poco importava. Il sabato giocavano loro. Sempre e comunque. E la cosa ancora più bella era che il loro orario era fisso, ma al tempo stesso variabile in base alla stagione. Ore 15 d'inverno, ore 18 d'estate. Tutti lo sapevano. Per chi abbia la memoria corta, va ricordato che una volta la recinzione a protezione del palazzo retrostante la porta era molto bassa, quasi inesistente. Successivamente, a seguito delle insistenti proteste degli abitanti dello stabile, è stata innalzata una rete molto alta. Ma ai bei tempi la palla finiva spesso e volentieri nel terrazzino del piano terra o, peggio ancora, nella villa a fianco. Un sabato pomeriggio esco sul presto decidendo di andare a tirare due calci al pallone al Cristo. Non nel campetto, ovviamente. Sapevo benissimo che era il giorno sacro. Tuttavia sapevo altrettanto bene che Marchino, Mao, Filo (Guido) e gli altri ragazzi si ritrovavano a far due tiri nel campetto da basket adiacente, in attesa che il Bomber e gli altri finissero il loro epico match. Se poi mancava qualcuno dei grandi, poteva anche toccare ad uno di noi avere il privilegio di giocare con loro. Ma bisognava accontentarsi di stare in porta, c'erano delle gerarchie da rispettare. Che io mi ricordi, solo Rito Bri.... ("un uomo, una meraviglia") era riuscito a giocare "sotto", ma i suoi metodi poco ortodossi (ne sanno qualcosa Leo C. e Michele M., spiaccicati sul cemento dalla sua proverbiale grinta) lo portarono ad avere un accenno di rissa con nientepopodimenoche lo Chef (per chi non lo sapesse è lo zio del Niger). Ma questa è un'altra storia. Non divaghiamo. Tornando al dunque, va premesso che, a causa della pochezza della recinzione dietro la porta, la palla finiva spesso e volentieri nel terrazzino privato del palazzo retrostante. Appena la sfera rimbalzava, partiva il cont-down. "Dieci... nove... otto...", uno di noi doveva scattare e rispedire la palla al Bomber entro lo scadere del tempo, altrimenti erano davvero guai grossi. Io ero più piccolo degli altri, e i grandi mi conoscevano appena di vista. Quindi con me erano meno intransigenti, ma con Marchino & c. non scherzavano affatto. Dopo tre o quattro volte consecutive che eravamo stati costretti alla corsa forsennata per lottare contro l'esiguo tempo a nostra disposizione (e non va tralasciato che quel terrazzino era presidiato da un cagnolino, piccolo ma tignoso), ecco ancora partire il cont-down. Evidentemente i loro piedi non erano un gran Cynar. Purtroppo le impostazioni a gran voce del Bomber dovevano lasciare spazio troppo spesso a quel fastidioso cont-down. "Dieci... nove... otto... sette...", ma nessuno di noi ancora si era offerto volontario. Ci guardiamo negli occhi, al "sei" scattiamo tutti insieme verso l'uscita. Ma la nostra destinazione non era il terrazzino, bensì la fuga. Il colpo di genio ci consiglia di entrare nella palestra vicina, custodita dalla Sig.ra "Peppa" (la nonna del Bruz). Lì pensiamo di essere al sicuro: Fuente e gli altri, smaniosi di continuare la partita, ce la faranno pagare in seguito, ma nel frattempo recupereranno da soli il loro pallone. Ed invece il colpo di scena. Noi, per sicurezza, ci eravamo comunque nascosti dietro i divanetti della palestra. Tutto d'un tratto, la porta si apre repentinamente. Sono loro. Sono incazzati neri. Io riesco a cavarmela perché nascosto nel gabbiottino che dà sulla palestra, ma presumibilmente mi hanno lasciato perdere perché con me avevano poca confidenza. Per Marchino e gli altri però sono dolori. Volano sonori ceffoni, ci invitano a non riprovarci mai più. Con la coda tra le gambe, chiediamo scusa ed andiamo a recuperare il pallone per l'ennesima volta. Un colpo di testa come il nostro non doveva più ripetersi. Questa è, o meglio era, la legge del Cristo Re. Altro che le generazioni di oggi in cui i gagnozzetti di prima elementare parlano già al cellulare mentre la mamma pulisce loro il culo o scarta loro la merendina. Il rispetto verso i più grandi non sanno proprio che cosa sia. Ma noi siamo fieri di essere cresciuti al Cristo Re. Purtroppo però non siamo riusciti a trasmettere quei metodi spartani alle generazioni a venire. Ha ragione il Ciccio quando, nel vedere la prepotenza dei bambozzi odierni, afferma: "Non è colpa nostra! Sono quelli dopo di noi che non si sono fatti rispettare...". Non possiamo biasimarlo. Purtroppo siamo stati troppo buoni. Mea culpa.
by STe
Quanti ricordi ci evoca quel campetto. Davvero in pochi di quelli della nostra generazione che masticano il "calcetto on the road" possono dire di non aver mai calcato il glorioso asfalto del Cristo Re. Quante compagnie abbiamo visto passare in questi anni. Il bello del Cristo Re era che c'era sempre gente diversa. A parte noi, s'intende. Ogni tanto c'era una compagnia, mai vista prima, che si insediava in quel campetto. Giocavano, se ne andavano e poi tornavano puntualmente il giorno dopo. Manco fosse la transumanza. Ma tornavano. Questo per periodi variabili: giorni, settimane o anche mesi. Poi però svanivano nel nulla, senza dare più notizie. Come erano arrivati, allo stesso modo se ne andavano. Tutti però sapevano che il sabato era il giorno sacro. Guai a profanare quel campetto proprio in quella giornata. C'erano il Bomber, Chef, Ciccia, Fuente e tutta la combriccola che dovevano giocare. Il sabato era il loro giorno. Neppure la buffa trovata di qualcuno (l'invenzione della prenotazione... manco fosse un campo a pagamento) era riuscita a cavare un ragno dal buco. Neve, grandine o solleone, poco importava. Il sabato giocavano loro. Sempre e comunque. E la cosa ancora più bella era che il loro orario era fisso, ma al tempo stesso variabile in base alla stagione. Ore 15 d'inverno, ore 18 d'estate. Tutti lo sapevano. Per chi abbia la memoria corta, va ricordato che una volta la recinzione a protezione del palazzo retrostante la porta era molto bassa, quasi inesistente. Successivamente, a seguito delle insistenti proteste degli abitanti dello stabile, è stata innalzata una rete molto alta. Ma ai bei tempi la palla finiva spesso e volentieri nel terrazzino del piano terra o, peggio ancora, nella villa a fianco. Un sabato pomeriggio esco sul presto decidendo di andare a tirare due calci al pallone al Cristo. Non nel campetto, ovviamente. Sapevo benissimo che era il giorno sacro. Tuttavia sapevo altrettanto bene che Marchino, Mao, Filo (Guido) e gli altri ragazzi si ritrovavano a far due tiri nel campetto da basket adiacente, in attesa che il Bomber e gli altri finissero il loro epico match. Se poi mancava qualcuno dei grandi, poteva anche toccare ad uno di noi avere il privilegio di giocare con loro. Ma bisognava accontentarsi di stare in porta, c'erano delle gerarchie da rispettare. Che io mi ricordi, solo Rito Bri.... ("un uomo, una meraviglia") era riuscito a giocare "sotto", ma i suoi metodi poco ortodossi (ne sanno qualcosa Leo C. e Michele M., spiaccicati sul cemento dalla sua proverbiale grinta) lo portarono ad avere un accenno di rissa con nientepopodimenoche lo Chef (per chi non lo sapesse è lo zio del Niger). Ma questa è un'altra storia. Non divaghiamo. Tornando al dunque, va premesso che, a causa della pochezza della recinzione dietro la porta, la palla finiva spesso e volentieri nel terrazzino privato del palazzo retrostante. Appena la sfera rimbalzava, partiva il cont-down. "Dieci... nove... otto...", uno di noi doveva scattare e rispedire la palla al Bomber entro lo scadere del tempo, altrimenti erano davvero guai grossi. Io ero più piccolo degli altri, e i grandi mi conoscevano appena di vista. Quindi con me erano meno intransigenti, ma con Marchino & c. non scherzavano affatto. Dopo tre o quattro volte consecutive che eravamo stati costretti alla corsa forsennata per lottare contro l'esiguo tempo a nostra disposizione (e non va tralasciato che quel terrazzino era presidiato da un cagnolino, piccolo ma tignoso), ecco ancora partire il cont-down. Evidentemente i loro piedi non erano un gran Cynar. Purtroppo le impostazioni a gran voce del Bomber dovevano lasciare spazio troppo spesso a quel fastidioso cont-down. "Dieci... nove... otto... sette...", ma nessuno di noi ancora si era offerto volontario. Ci guardiamo negli occhi, al "sei" scattiamo tutti insieme verso l'uscita. Ma la nostra destinazione non era il terrazzino, bensì la fuga. Il colpo di genio ci consiglia di entrare nella palestra vicina, custodita dalla Sig.ra "Peppa" (la nonna del Bruz). Lì pensiamo di essere al sicuro: Fuente e gli altri, smaniosi di continuare la partita, ce la faranno pagare in seguito, ma nel frattempo recupereranno da soli il loro pallone. Ed invece il colpo di scena. Noi, per sicurezza, ci eravamo comunque nascosti dietro i divanetti della palestra. Tutto d'un tratto, la porta si apre repentinamente. Sono loro. Sono incazzati neri. Io riesco a cavarmela perché nascosto nel gabbiottino che dà sulla palestra, ma presumibilmente mi hanno lasciato perdere perché con me avevano poca confidenza. Per Marchino e gli altri però sono dolori. Volano sonori ceffoni, ci invitano a non riprovarci mai più. Con la coda tra le gambe, chiediamo scusa ed andiamo a recuperare il pallone per l'ennesima volta. Un colpo di testa come il nostro non doveva più ripetersi. Questa è, o meglio era, la legge del Cristo Re. Altro che le generazioni di oggi in cui i gagnozzetti di prima elementare parlano già al cellulare mentre la mamma pulisce loro il culo o scarta loro la merendina. Il rispetto verso i più grandi non sanno proprio che cosa sia. Ma noi siamo fieri di essere cresciuti al Cristo Re. Purtroppo però non siamo riusciti a trasmettere quei metodi spartani alle generazioni a venire. Ha ragione il Ciccio quando, nel vedere la prepotenza dei bambozzi odierni, afferma: "Non è colpa nostra! Sono quelli dopo di noi che non si sono fatti rispettare...". Non possiamo biasimarlo. Purtroppo siamo stati troppo buoni. Mea culpa.
by STe